1934 | Il trionfo degli azzurri di Pozzo

di Adalberto Bortolotti *

In Italia, nei primi anni Trenta, il calcio viveva una sorta di età dell'oro, favorito dal regime fascista che vi identificava una formidabile fabbrica di consenso. Per modernità e capillarità di strutture, l'Italia era seconda, forse, alla sola Inghilterra. Stadi nuovi e imponenti erano appena sorti, o andavano completandosi, coniugando la grandiosità richiesta dall'epoca con il profondo rispetto dei canoni estetici: basti pensare agli impianti di Firenze, Bologna, Torino, o allo stesso Flaminio di Roma, che allora si chiamava stadio del PNF (Partito nazionale fascista). Non stupì, quindi, che al congresso di Stoccolma del 1932 l'Italia venisse prescelta, con votazione quasi unanime, per ospitare la seconda edizione del Campionato del Mondo, la prima in Europa.

La copertina del supplemento settimanale
del "Corriere della sera" del 17 giugno 1934
celebra la vittoria degli Azzurri contro la Cecoslovacchia
Com'era prevedibile, la sede europea fece impennare il numero delle iscrizioni, che furono inizialmente 32 e poi si ridussero a 29 per il forfait di Cile, Perù e Turchia. Fu uno strepitoso successo tecnico e organizzativo, ma anche la rivincita europea, dopo l'en plein sudamericano del 1930. Del resto, il vecchio continente trovò scarsa resistenza. L'Uruguay, campione in carica, disertò per ritorsione verso l'Italia, assente quattro anni prima. L'Argentina mandò una squadra di dilettanti nel timore, fondato, che i suoi campioni non sarebbero tornati indietro, ingaggiati dai club italiani a caccia di attrazioni esotiche. Il Brasile, invischiato nelle consuete diatribe interne, inserì un paio di fuoriclasse, Leonidas e Waldemar de Brito, in una nazionale di piccolo cabotaggio.

Erano invece presenti in blocco, e nel ruolo di favorite, le stelle del calcio danubiano, Austria e Cecoslovacchia in particolare, mentre restava fuori l'Inghilterra in perenne e sdegnoso contrasto con la Federazione internazionale. L'Italia rappresentava, con la Spagna del mitico Ricardo Zamora, il fascino del calcio latino. Dal 1929 Vittorio Pozzo era tornato alla guida tecnica degli azzurri, dopo l'interregno di Augusto Rangone, illuminato dal bronzo olimpico vinto ad Amsterdam nel 1928. Rigido, autoritario, con una visione altamente patriottica dell'impegno agonistico, Pozzo era l'uomo giusto per i tempi, ma era anche un tecnico di prim'ordine, innamorato del calcio legato ai più grandi personaggi del tempo, da Hugo Meisl, il profeta del Wunderteam austriaco, a Herbert Chapman, l'inventore del 'sistema' inglese. Pozzo allestì con cura una squadra attenta più agli equilibri collettivi che ai valori individuali (escluse dalla nazionale Fulvio Bernardini perché "troppo bravo"), tatticamente sofisticata, in grado di arricchire il tradizionale 'metodo' danubiano con l'arma, prettamente italica, del contropiede. L'Italia, anche a causa di sorteggi sfavorevoli, trovò sul proprio cammino ostacoli durissimi, superati tutti, forse con qualche aiuto, ma certo con grande merito. Chi parlò di vittoria di regime, e furono in tanti fuori dai confini, fu smentito dal bis che quattro anni dopo l'Italia di Pozzo concesse, giocando all'estero e in un ambiente carico di ostilità.

Gli azzurri cominciarono travolgendo gli Stati Uniti negli ottavi con il risultato di 7-1, ma nei quarti incontrarono la Spagna e fu battaglia feroce, con un risultato finale di pareggio anche dopo i supplementari. Alla ripetizione del match, il giorno seguente, non c'era Zamora a difendere la porta spagnola e molte furono le malignità su quel decisivo forfait. Giuseppe Meazza, che in carriera mai riuscì a battere Zamora, si ripagò con il suo sostituto: il risultato di 1-0 rimase sino alla fine e alla Spagna fu annullato il gol del pareggio.

La Nazionale italiana
Da sinistra Monti, Pizziolo, Schiavio, Orsi, Ferrari, Rosetta, Meazza, Combi, Guarisi,
Allemandi, Bertolini e le riserve Monzeglio, Guaita e Caranna
In semifinale l'Italia incontrò la terribile Austria, uscita vincitrice a sua volta da un derby piuttosto acceso con l'Ungheria. Ancora 1-0 per gli azzurri, firmato da Enrico Guaita, uno dei tre oriundi, con l'ala sinistra Mumo Orsi e il centromediano Luisito Monti,
lo stesso che aveva difeso i colori argentini nel precedente Mondiale. In finale era approdata più agevolmente la Cecoslovacchia, con un perentorio 3-0 ai tedeschi, che giocavano il 'sistema', unica eccezione in un fronte compatto di 'metodisti'.

La finale andò in scena a Roma il 10 giugno 1934. Già la voce metallica di Nicolò Carosio scandiva via radio le emozioni del pallone. I cecoslovacchi controllarono magistralmente la partita per l'intero primo tempo, grazie al fraseggio insistito e alla manovra ricamata dal loro centrocampo. Il portiere Frantisek Planicka restava irraggiungibile per i nostri attaccanti: il centravanti bolognese Angelo Schiavio, l'interno di punta Meazza dell'Inter, l'argentino Guaita della Roma. Quando, a venti minuti dalla fine, Antonin Puc, con un tiro a effetto, trovò il gol quasi dalla linea di fondo, all'Italia tutto parve perduto. Un palo di Frantisek Svoboda negò il raddoppio alla Cecoslovacchia. Solo una prodezza in extremis del minuscolo Raimundo Orsi valse la proroga dei tempi supplementari. Pozzo ordinò a Schiavio e a Guaita di scambiarsi i ruoli. A Schiavio essere dirottato all'ala parve un affronto. Obbedì, ma l'istinto lo portò al centro, dopo sette minuti di overtime, per incrociare un lancio di Meazza e batterlo a rete, fuori della portata di Planicka. Così maturò il trionfo. Dopo quel gol storico e decisivo, Schiavio lasciò la nazionale. Aveva 29 anni, una lunga carriera davanti; ma si chiese: "Dopo questo, cosa potrei fare di più?".

* Tratto da I Campionati Mondiali, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002 (© Treccani)